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La pace è un tema che non tramonta, se ne parla tanto, eppure non si realizza mai! Spesso rischia di tradursi in un argomentare astratto, difficile da definire. Talora la si intende come lo “stare bene in sé stessi”, “essere in armonia”; talaltra come “assenza di conflitto”. Ma cosa significa veramente realizzare la pace interiore? Essa è inscindibile da una pacificazione con la vita nel senso più ampio del termine. La pace può essere considerata a vari livelli: pace interiore, pace familiare, pace relazionale, pace sociale, pace internazionale. Non è possibile essere in pace con sé stessi e avere una famiglia disordinata, combattere con il vicino e non essere in armonia con l’ambiente. Ciò è bene espresso dagli stessi trattati sullo yoga, gli Yogaśāstra, che sottolineano l’importanza di scegliere un ambiente favorevole, soprattutto quando si intraprende una disciplina interiore; si deve prediligere un luogo tranquillo, che oltre a essere pacifico, si trovi, addirittura, in un paese governato bene, da un regnante favorevole all’ascesi e alla disciplina spirituale. Oggi simili realtà sono sempre più rare! Le ingiunzioni delle Scritture celano un’impalcatura filosofica specifica, che affonda le radici nella triplice sorgente del karma, la legge di responsabilità, o di causa ed effetto, su cui poggia l’intera manifestazione. Due di queste cause sono esterne, ādhibhautika e ādhidaivika, e una interna, ādhyātmika. L’ādhibhautika si riferisce alla relazione che ciascuno ha con l’ambiente circostante, e che deve imparare a mantenere pulito, sano, limitando le forme di inquinamento, per creare uno spazio dove vivere serenamente. Si deve, inoltre, imparare a relazionarsi bene con le persone e con gli altri esseri viventi. L’altra fonte esterna del karma è ādhidaivika, quella per cui dobbiamo conciliare la nostra vita con le situazioni più o meno benevole che derivano dall’ambiente più vasto, quello planetario. Noi nasciamo e viviamo sotto una particolare influenza planetaria, magnetica, di interrelazione fra i vari corpi celesti e, sin dalla nascita, sotto un’influenza divina, che può anche essere non favorevole. Infine vi è l’ādhyātmika, “l’ambiente” interiore, quello che noi siamo in quanto prodotto delle nostre parole, del nostro pensare, del nostro agire. Per costruire la pace dentro e intorno a noi non possiamo prescindere da un’analisi e da una riconciliazione attenta con queste tre fonti del karma. Altro aspetto da considerare è la motivazione per cui si cerca la pace. Tra persone e così tra nazioni essa può essere ricercata per interesse, per motivi economici, politici, quindi, in un certo senso, spinti dal timore o dalla convenienza, ma non da una necessità genuina e sincera. La pace può dunque nascere per paura o per assenza di paura. Si può certo considerare valida un’idea di pace come strumento di conciliazione, di compromesso, di tregua, o per creare un’alleanza. Tuttavia, la pace vera e duratura può nascere solo dall’autocontrollo e dall’autodisciplina che nutrono le qualità interiori e generano l’assenza di ogni conflitto. Solo allora la pace si rispecchierà anche intorno a noi. Su un piano individuale, i processi della mente, finalizzati all’acquisizione della pace, sono studiati attraverso la disciplina dello yoga. Negli Yogasūtra di Patañjali si definiscono i disturbi e gli ostacoli della mente costituiti di cinque vṛtti, i processi di attività della mente, e di cinque kleśa, le cause di sofferenza. I kleśa sono nodi fondamentali da affrontare per chi vuol cercare la pace. Il primo di questi a cui siamo soggetti è avidyā, ossia l’incapacità di riconoscere la realtà, di distinguere il vero dal non vero, quello che appare da quello che realmente è; semplicemente vediamo la realtà con le proiezioni della nostra mente. Avidyā, a sua volta, dà nascita a un altro fenomeno che è il senso dell’io, asmitā, la causa di tutte le identificazioni. Ognuno si crea un’infinita molteplicità di identificazioni come persona, in senso puramente soggettivo di identità o di ruolo, “io sono il signor x”; “sono padre, madre, fratello, sorella, moglie, marito di”; si qualifica come forte o debole, ricco o povero, amico o nemico, e così via. Questa serie di qualificazioni, che nascono dall’asmitā, produce, a sua volta, avversioni e attaccamenti, che sono la radice dei nostri dolori. L’asmitā, il senso dell’io, proprio perché genera il processo attivo dell’avversione e dell’attaccamento, rāga e dveṣa, determina la paura, la paura di perdere, di non possedere quello che si desidera, di essere inadatti, inadeguati o incapaci di sostenere il proprio ruolo. È la paura, in ogni caso, la causa della nostra sofferenza. Da Patañjali, essa è chiamata “abhiniveśa”, la paura della morte, che comporta quindi un grande attaccamento alla vita. Questo avviene in tutti i processi dell’esistenza; non c’è nessun essere che non abbia paura di morire, di perdere la vita, neppure un semplice filo d’erba: ogni essere si aggrappa alla propria esistenza. Per favorire il processo di pace bisogna cominciare a pacificare questi aspetti e riconoscere la paura perché in sua presenza non può esserci pace. Le Scritture, nel descrivere la disciplina dello yoga, parlano, sì, di amore, di compassione, di gentilezza verso il Tutto, ma mettono anche in guardia dai malvagi, nei confronti dei quali, esse affermano, si deve avere indifferenza. Tale assunzione potrebbe sembrare contraddittoria, eppure racchiude un grande insegnamento. Essere indifferenti ai malvagi suggerisce, infatti, di riconoscere la natura divina, l’Ātman, anche nella persona malvagia, senza, tuttavia, lasciarsi condizionare dalle sue azioni non in linea con il dharma. L’indifferenza aiuta a non provare ostilità verso l’altro, ma neppure a rimanere inermi qualora qualcuno diventi una minaccia per la vita o il bene comune generale. Dio ha posto nel mondo due leggi fondamentali: il dharma e il karma. Il dharma racchiude le virtù etiche che sostengono la vita, tra cui l’ahiṃsā, la non violenza e il dāna, la reciprocità, il dono. La non violenza non è un principio di passività, tutt’altro! Essa esprime una difesa attiva del bene e dell’armonia, e produce assenza di ostilità e conflitto. Con l’ahiṃsā si riscopre il Sé, la Coscienza Divina ed eterna in ogni essere vivente; essa è l’essenza dell’Amicizia e dell’equanimità. Allora e solo allora, la pace, per amore della liberazione, diventa non più una ricerca, ma uno stato naturale dell’essere fondato sulla completa assenza di paura. Vedere l’Unità nella diversità, come celebra un verso del Ṛg Veda, significa mettere in pratica l’insegnamento di accettare tutte le visioni e i punti di vista senza imporre a nessuno il proprio o ritenere che il proprio sia l’unico e il migliore. Un messaggio questo che fa eco a un altro noto inno dello stesso Veda in cui si legge: Ekaṃ sad viprā bahudhā vadanti: “la verità che è Una i saggi chiamano con molti nomi”. Un’applicazione concreta di questo monito e il riconoscimento di essere tutti parte di un’unica grande famiglia umana, Vasudhaiva kutumbakam, risolverebbe qualsiasi fonte di conflitto, consapevoli dell’interrelazione che unisce ogni aspetto della manifestazione. Come in una famiglia di cui avere cura, attenzione e amore.