Il tema non riguarda, io credo, solo i giovani, sicuramente i più esposti, ma ci riguarda tutti. E siamo tutti convinti che il mondo che abitiamo – il mondo della scienza e della tecnica – ci fornisca benefici che sono innegabili. Ma, nella leggera euforia che ci prende nell’utilizzare strumenti e servizi che accorciano lo spazio, velocizzano il tempo, oltrepassano il dolore, dobbiamo chiederci: possiamo ancora mantenere la tecnica nel suo ruolo di strumento e di mezzo per realizzare uno scopo? Oppure è la tecnica che affida i compiti agli uomini?
Insomma, è la tecnica nelle mani degli uomini, oppure sono gli uomini nelle sue mani?
Ed è possibile uscire da questo mondo della tecnica, della rete, del cyberspazio oppure il mio ipotetico sciopero dalla tecnica mi esclude di fatto da ogni possibile ambiente, sia esso quello lavorativo o sia quello privato?
Qualunque sia la nostra risposta a queste domande sarebbe patetico rifiutare l’inevitabile, dividerci tra fautori o denigratori delle nuove tecnologie perché noi abitiamo il mondo della scienza e della tecnica irrimediabilmente e senza scelta.
Se non possiamo cambiare il mondo dobbiamo però esserne attenti osservatori per evitare almeno che cambi a nostra insaputa. Personalmente credo con Heidegger, Severino e Galimberti, che si sono occupati a lungo del problema, che la tecnica da mezzo sia diventata il fine.
Perché, se la tecnica, come osserva Emanuele Severino, è la condizione universale per realizzare qualsiasi scopo, la tecnica non è più un mezzo, ma il primo fine da raggiungere per poter poi perseguire tutti gli altri scopi che – in assenza del dispositivo tecnico – resterebbero dei sogni.
Tutto ciò, però, ha delle enormi conseguenze che proverò soltanto a tratteggiare.
1) Il capovolgimento dei mezzi in fini.
Due osservazioni di Hegel, nella Scienza della logica, sono determinanti per la comprensione di questo capovolgimento dei mezzi in fini.
Nella prima osservazione egli sostiene che nel futuro la ricchezza non sarà più determinata dai “beni” ma dagli “strumenti” perché i beni si consumano, mentre gli strumenti sono in grado di costruire nuovi beni.
Nella seconda considerazione egli osserva che, quando un fenomeno cresce da un punto di vista quantitativo, non si ha solo un aumento in ordine alla quantità ma anche una variazione qualitativa radicale. Hegel fa anche un esempio divertente: se mi tolgo un capello sono uno che ha i capelli, se mi tolgo due capelli sono uno che ha i capelli, se mi tolgo tutti i capelli sono calvo.
Vi è, dunque, un cambiamento qualitativo per il semplice incremento quantitativo.
E così, se la tecnica diventa ciò senza cui nessun fine è realizzabile, allora essa diventa – a prescindere dagli scopi – ciò che tutti vogliono perché, senza la tecnica, anche quelli che si presume siano i veri fini – per esempio il capitalismo mondiale – non possono essere raggiunti.
Tutto ciò, però, ha delle conseguenze enormi sul piano antropologico. Analizziamo brevemente due soli ambiti: quello politico e quello etico.
2) L’assenza della politica nell’età della tecnica.
La politica oggi non è più il luogo delle decisioni perché per decidere deve guardare all’economia e l’economia, a sua volta, per decidere i suoi investimenti guarda alla disponibilità e alle risorse tecnologiche.
Tutto ciò, però, comporta dei rischi perché – come ci ricorda Platone – le tecniche sanno come si devono fare le cose ma non sanno se quelle cose devono essere fatte e perché devono essere fatte.
Oggi il rapporto tra tecnica e politica, che per Platone doveva guidare le tecniche, si è completamente capovolto.
3) L’ambito dell’etica.
Anche l’etica, a mio avviso, come forma dell’agire in vista di fini, celebra la sua impotenza. E la celebra perché il mondo della tecnica è regolato dal puro “fare” dove quelli che noi chiamiamo fini sono in realtà semplici “risultati” di procedure a-finalizzate.
Ma allora – come osserva opportunamente Severino – come si può impedire alla tecnica che sa fare di non fare ciò che può?
Lo vediamo – a puro titolo esemplificativo – con la gestazione per altri (il cosiddetto utero in affitto o maternità surrogata), con gli organismi geneticamente modificati e così via.
Come puoi impedire allora alla tecnica di non fare ciò che sa fare?
Semplicemente non è possibile perché quand’anche una pratica fosse vietata in un certo paese è sufficiente varcare il confine.
Ma l’etica può essere salvaguardata solo dall’agire umano, un agire inteso come finalità da perseguire e non dal semplice fare inteso come conseguimento di risultati.
E, dunque, il primato dell’etica e della politica esige che si faccia riferimento all’agire e non al semplice fare in cui si esprime il fare produttivo della tecnica.
4) La modificazione del nostro modo di pensare e di sentire.
Questa modificazione, dovuta al cambiamento più radicale che il mondo della tecnica ha prodotto, non riguarda solo i giovani, ma ci riguarda tutti.
Né vale l’obiezione secondo cui la tecnica è buona o cattiva a seconda dell’uso che se ne faccia perché ciò che ci modifica non è il suo buono o cattivo uso ma il solo fatto che ne facciamo uso. Il suo utilizzo ci modifica.
Parlare con i nostri amici attraverso una chat significa subire una trasformazione nella nostra modalità di relazione perché discutere via chat è diverso che incontrarsi di persona.
Se i bambini guardano la televisione quattro o più ore al giorno, è inevitabile che si trasformi il loro modo di pensare e di sentire, e tutto questo indipendentemente dai buoni o dai cattivi programmi. È sufficiente la prolungata esposizione.
Ma anche il nostro modo di sentire viene modificato dal mondo della tecnica.
La nostra psiche risponde all’ambiente circostante, quello dove siamo nati, dove viviamo e lavoriamo. Ma i mezzi di comunicazione ci mettono in contatto con i problemi del mondo intero e noi non siamo in grado di farvi fronte.
Se muore un mio parente o amico, piango, se muore un mio vicino faccio le condoglianze, ma se mi dicono che ogni otto secondi nel mondo muore di fame un bambino, mi dispiace, ma non sono in grado di reagire perché i media ci offrono uno scenario di accadimenti che oltrepassano la nostra capacità di percezione emotiva.
“Il troppo grande ci lascia indifferenti” scrive Anders, allievo di Heidegger e compagno di Hannah Arendt. Neppure emotivamente siamo dunque in grado di affrontare il mondo della tecnica.
Lo stesso discorso vale per il tempo e le distanze, come ci ricorda Heidegger.
Tutte le distanze nel tempo e nello spazio si accorciano ma questa fretta di sopprimere ogni distanza non realizza una vicinanza. Ciò che, in termini di misura, è il meno distante da noi grazie all’immagine di un film o della televisione, può rimanerci lontano.
Una piccola distanza non è ancora una vicinanza.
Una vicinanza è esporsi all’insolito, facendoci uscire dall’abituale e quindi dalle nostre abitudini.
Una modalità che oggi si è quasi perduta se persino sulla cima dell’Everest mi possono rintracciare sul mio cellulare.
E se mi possono rintracciare, si perde quella solitudine per cui il viaggio diventa un’occasione per l’anima perché – come ci ricorda Orazio – “non è cambiando il cielo che si cambia l’animo”.
Cosa fare allora in questo panorama così sconfortante? Intanto – come dicevo all’inizio – rendercene conto perché il mondo non cambi a nostra insaputa.
E poi? E poi opporci all’etica antropocentrica che tratta gli enti di natura come semplici mezzi, opporci a un modello di civiltà che non è compatibile con le ragioni profonde della vita.
Se non ci riusciremo, la domanda non sarà più: “Che cosa possiamo fare noi con la tecnica”, ma “Che cosa la tecnica può fare di noi”.
