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Il termine sanscrito per “musica” è saṅgīta, che in realtà indica non solo la musica strumentale, ma anche il canto e la danza.
Essa riveste un ruolo di prim’ordine nella tradizione religiosa e culturale induista, al punto tale da vantare origini divine e da avere un intero “Veda” – il Gandharva – a essa dedicato. Il nome “gandharva” richiama le figure dei musici celesti le cui melodie risuonano negli stati più sublimi dell’animo umano. Sulla medesima scia semantica, si delinea un particolare stile di musica classica, praticato alla stregua di una disciplina mistica di elevazione spirituale.
Una prima periodizzazione della musica è conosciuta come “fase della foresta”. Il vivere a stretto contatto con la natura fornì ai saggi antichi la possibilità di meditare e penetrare il mistero della vita e di sperimentare la profonda connessione tra micro e macrocosmo, tra uomo-natura e Dio. Un legame rimasto saldo nei secoli, e tradottosi in musica in una corrispondenza rigorosa tra suoni, elementi naturali ed emozioni.
Tutti ingredienti basilari del rāga, la melodia.
È emblematico che gli albori del sistema musicale si possano rintracciare proprio in ambito rituale, nel metodo di recitazione degli inni dei Veda, in particolar modo, del Sāmaveda. Essi sono formulati per essere salmodiati secondo una rigorosa scienza metrica e di accentazione, basata su tre tonalità: una centrale, svarita, una ascendente, udātta, e una discendente, anudātta.
Con il trascorrere dei secoli, la scienza musicale si dirama in due vie, mārga e deśī, rispettivamente “classica”, disciplina mistica, e “popolare”, di intrattenimento. La prima diviene preghiera e strumento di devozione all’interno del rituale di adorazione (pūjā) espletato nel tempio; la seconda dà vita alla musica d’intrattenimento, prerogativa delle corti dei sovrani.
Alla musica si tributa inoltre il merito di aver agito da amalgama tra culture e religioni differenti. Si pensi alla tradizione hindusthāna figlia dell’incontro tra islam e induismo.
L’hindusthāno e il carnatico, rispettivamente autoctoni del nord e del sud dell’India, costituiscono i due stili principali di musica classica indiana. In comune, seppure con alcune varianti, hanno l’impalcatura melodica-estetica (rāga-rasa).
In un antico trattato musicale, la Bṛihaddeśī, si legge: “Secondo il parere dei saggi, quelle particolari note e quei movimenti melodici, o quella raffinatezza del suono melodico per mezzo di cui si è felici, è definito rāga”.
“Rāga” letteralmente significa “tingere, colorare” e, in senso figurato, veicola la capacità di “tingere con un’emozione specifica” l’ascoltatore.
Centinaia sono i rāga, e ciascuno ha un proprio nome e un carattere distintivo (devozionale, eroico, tragico, sentimentale), è associato a un colore e a un aspetto del Divino, a un momento del giorno (può essere eseguito nell’intervallo di tre ore), e a una stagione. Il rāga è una struttura tonale molto complessa costruita su una scala specifica di cui si possono usare cinque, sei o tutte le sette note (dodici se si considerano i semitoni).
Una volta che il musicista padroneggia la struttura di base del rāga, possiede grande libertà di improvvisazione. Ciò spiega l’assenza di partitura scritta, anche in ragione del carattere prevalentemente monodico e non polifonico della musica indiana, stimando inoltre che il metodo precipuo di trasmissione tradizionale del sapere è squisitamente orale. Il musicista-cantante deve possedere una maestria perfetta nel combinare le note, svara; i cicli ritmici, tāla; la lirica, pada, e sfruttare al meglio le potenzialità dei ventidue microtoni, śruti.
Chiave di volta della dottrina musicale è l’idea di śruti, “l’ascolto”.
Com’è noto, il termine Śruti indica il Veda, la Conoscenza divina udita dagli antichi veggenti, i ṛṣi, ma questa stessa parola indica anche i microtoni del sistema musicale il cui apprendimento si incentra sull’ascolto.
Nella sua prima accezione, è direttamente associata a una raffinata teologia sonica presente nel Veda secondo cui dall’Assoluto e immanifesto Brahman emerge la prima vibrazione: l’oṃkāra. Questo suono supremo chiamato anche Vāk, la Parola creativa, rappresenta il grembo fecondo di ogni realtà. È interessante segnalare un’ulteriore corrispondenza semantica relativa a “svara”, che rende “vocale”, “accento” e “nota”.
L’etimologia suggerisce “ciò che risplende di per sé” e “ciò che risuona”; quindi l’idea di luce e suono, come atto primo della manifestazione. Proprio come dalle vocali emergono tutte le forme, così dalle note nascono tutte le melodie.

“Anche se tu lo impedissi, caro amico, io sarei impotente. Le mie canzoni contengono le mie preghiere. La mia musica è adorazione di te, è il servizio che ti rendo, è il grido del mio cuore, è tutto ciò che io posso offrirti, poiché la mia musica è l’essenza del mio essere.” (Canto di Madan Baul, mistico bengalese del XIX secolo)