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In questa breve riflessione più che presentare un punto di vista personale, vorrei mostrare un percorso testuale attraverso le fasi letterarie sanscrite più antiche, partendo dagli inni delle raccolte sapienziali, le Saṃhitā, passando per i testi sacerdotali, i Brāhmaṇa, arrivando fino alle speculazioni metafisiche delle Upaniṣad, fino a lambire la Bhagavadgītā con alcune considerazioni.
Il contesto culturale indiano è, a partire dall’antichità vedica fino ai risvolti contemporanei, disseminato di trattazioni, discussioni, simbologie, metafore e allusioni concernenti il cibo e il nutrimento in generale. Ovviamente le accezioni e gli usi sono i più disparati, dalla necessità biologica, alla transazione economica, come medium di interazione sociale e famigliare, come ingrediente primario di atti rituali e sociali, come protagonista simbolico di miti e pratiche, nonché di speculazioni teologiche e metafisiche, come principio di classificazione, come focus di concezioni etiche relative a religiosi e iniziati, come anche a persone comuni. I riti vedici solenni (śrauta) potevano includere l’uccisione e il successivo smembramento di una vittima sacrificale che finiva con l’essere consumata in un banchetto conclusivo, proprio come la loro attuale controparte vegetariana che consiste essenzialmente nelle offerte di cibo fatte all’icona e poi consumate dal devoto come resto del pasto della divinità e forma tangibile della sua grazia (prasāda). Come insegnano innumerevoli passi – sanscriti e vernacolari –, cibarsi dei resti dei pasti divini conduce sacrificatori e devoti a una maggiore prossimità con il divino. In effetti, ogni rito, tanto privato quanto collettivo, culmina nella commensalità, occasione in cui il nutrimento è protagonista. In un panorama come quello indiano, sia esso antico o contemporaneo, varie sono le parole sovrapponibili ai termini italiani “cibo, nutrimento, alimento, alimentazione” (khādya, bhojya, bhakṣya). Tuttavia due sono quelli principali che, attraverso un raffinato e complesso gioco di paretimologie, possono arrivare a significare vari aspetti del campo semantico del cibo. I due termini in questione sono anna, “ciò che è mangiato, ingerito”1 , e āhāra, “ciò che è preso e portato in sé”. Tuttavia, sembra che i testi più antichi si occupino soprattutto del cibo in quanto anna. Un verso importante della Bhagavadgītā (BG 15.14) ritrae la divinità suprema, Kṛṣṇa, come il fuoco gastrico comune a tutti gli esseri (vaiśvānara)2 , capace di assimilare quattro generi di cibo, ossia quello “che può essere masticato” (bhakṣya), “che può essere inghiottito” (bhojya), “che può essere leccato” (lehya) e “che può essere succhiato” (coṣya).

Io, divenuto il fuoco gastrico, che ha sede nel corpo degli esseri viventi, unito ai soffi ascendente e discendente, digerisco il cibo nei suoi quattro tipi.

È rilevante considerare che varie questioni concernenti il cibo, del tipo come si mangia, a chi è permesso mangiare e cosa mangia, come si prepara, quando e quanto si dovrebbe mangiare, da chi si può accettare il cibo, con chi si può mangiare, ecc., sono temi centrali della letteratura normativa. Addirittura, un testo vedico (Śatapathabrāhmaṇa 11.1.6.19) usa il cibo e l’atto di nutrirsi per classificare tutto ciò che esiste in due macro-insiemi: cibo (anna) e mangiatore di cibo (annada). Probabilmente, tale suddivisione riflette uno dei più noti inni del Ṛgveda (10.90), l’inno al Macrantropo (puruṣasūkta), che al quarto verso afferma che ogni cosa fu divisa in ciò che si mangia e ciò che non si mangia:

Quell’Essere si è innalzato lassù per tre quarti; il suo ultimo quarto è volto verso il mondo quaggiù. Di qua si è dispiegato in tutte le direzioni, verso ciò che mangia e ciò che non mangia.

La costruzione culturale che si fonda sul cibo lo trasforma da una necessità nutrizionale a uno strumento di pensiero, riflessione e comunicazione. In effetti, le successive testimonianze testuali mostrano l’importanza dell’alimentazione e il suo ovvio impatto sulla fisicità grossolana (sthūla), ma anche sul dominio sottile (sūkṣma) della psiche.

Inoltre, per la tradizione ortodossa antica, il cibo rappresenta essenzialmente almeno due dimensioni inestricabilmente interrelate, vale a dire il nutrimento per mantenersi vivo e un principio culturale di manifestazione cosmologica grossolana o sottile. Queste due dimensioni si declinano in una schiera di sfaccettature che coinvolgono il rito, il sociale, l’economia e la medicina, tutte convergenti verso l’indagine intellettuale e la ricerca interiore. Un cibo buono, nutriente e puro, non solo genera un corpo sano e resistente (aspetto medico), ma anche una mente vigile, adatta alla concentrazione e all’introspezione. Ciò di cui ci si ciba riflette ciò che si è e, simultaneamente, determina ciò che si diverrà. Il cibo demarca inoltre dei confini sociali e, contemporaneamente, dimostra le aspirazioni realizzative di un individuo.
Pertanto, identificato con principi primordiali, il cibo nelle speculazioni cosmologiche riveste un ruolo che, in un contesto originario, lo universalizza come una categoria astratta del pensiero, per cui non è confinato da limiti spazio-temporali o da relazioni sociali e individuali. Ecco che, in quanto principio cosmologico, il cibo gioca un ruolo fondamentale in vari miti cosmogonici. Per esempio, il signore delle creature, Prajāpati, è spesso ritratto come creatore e la sua creazione è cibo, ossia le piante. In effetti, la produzione del cibo segue immediatamente quella dei primi esseri viventi. Senza il cibo, tanto il creatore quanto le creature sono terrorizzati dalla morte.
Un interessante mito dello Śatapathabrāhmaṇa (2.2.4.1-7) mostra come Agni, il fuoco, il primo nato della manifestazione, sia “un consumatore di cibo” (annada):

Invero all’inizio esisteva solo Prajāpati. Egli pensò: “Come posso riprodurmi?” Così cominciò a impegnarsi in severe austerità. Dalla sua bocca generò Agni, il fuoco, e poiché quest’ultimo uscì dalla bocca del creatore è un consumatore di cibo. Chiunque sappia che Agni è tale anch’egli diviene un consumatore di cibo. Poi Prajāpati pensò: “Io, per il mio beneficio, ho generato quel Fuoco come un consumatore di cibo, ma non c’è altro cibo che me stesso. Certo, però, egli non si sognerà di mangiarmi!” In quel momento la terra era spoglia, non c’erano né piante né alberi. Dunque, questo il creatore ponderò in sé. Allora il Fuoco, con le fauci aperte, si volse verso di lui, che fu inorridito e la sua gloria da lui fuggì. […] Prajāpati desiderò ancora una creatura e si sfregò le mani e poiché fece questo i palmi delle mani sono privi di peli. Così, in seguito, egli ottenne un’offerta di burro e una di latte […] ma entrambe non sono che latte. Questa offerta, dunque, non lo soddisfece, poiché in essa c’erano dei peli. Egli la gettò così nel fuoco dicendo: “Mentre bruci, bevi” (oṣaṃ dhaya). Da ciò sorsero le piante, da cui il loro nome oṣadhaya. Poi, egli si sfregò le mani una seconda volta, così ottenne una seconda offerta di burro e di latte […] ma entrambe non sono che latte. Questa però lo soddisfece […].

In verità, questo mito identifica Prajāpati con il cibo. Infatti, questo è proprio quanto affermano gli dei che dissero al Fuoco: “Questo Prajāpati è cibo: con Te come nostra bocca noi mangeremo quel cibo e lui, Prajāpati, sarà cibo per noi.” (Śatapathabrāhmaṇa 2.2.4.8).
Lo stesso concetto riecheggia nella Praśna Upaniṣad (1.14) dove, aggiungendo un particolare importante, si dice “Il cibo è invero Prajāpati. Da ciò si ha il seme. Da esso sorgono tutte le creature!”
Questi e molti altri miti di manifestazione ospitati nella letteratura vedica tracciano una chiara connessione tra la manifestazione, il cibo e il sacrificio. I sacrifici, in effetti, riproducono gli atti creativi e così assicurano la continuazione del cibo. Per esempio, la Bhagavadgītā (3.8-16), che magnifica le qualità dell’azione più elevata, rappresenta un concentrato sintetico dell’intera letteratura vedica. Ivi, Kṛṣṇa si rivolge ad Arjuna con queste parole:

Tu compi l’azione che ti compete, giacché l’agire è meglio del non agire; la tua stessa vita fisica non può sussistere senza l’azione (8). Questo mondo è legato dai vincoli dell’azione, ma fa eccezione l’atto compiuto a scopo di sacrificio; compi dunque, o Arjuna, libero da attaccamento, l’azione che ha quell’unico scopo (9). Dopo aver sprigionato le creature, e con esse il sacrificio, un tempo disse loro Prajāpati: “Per mezzo di questo generate una discendenza, questo sia per voi la vacca che esaudisce i desideri (10). Per mezzo di questo fate prosperare gli dei luminosi e gli dei luminosi facciano prosperare voi. Facendovi prosperare reciprocamente otterrete un estremo benessere (11). Resi prosperi dal sacrificio, gli dei luminosi concederanno invero a voi i beni desiderati. Chi gode di quel che gli è donato, senza donare a sua volta, questi non è che un ladro! (12).” I buoni, che si nutrono di ciò che rimane dei sacrifici, sono liberati da ogni colpa; ma quei malvagi che cuociono solo per se stessi si cibano solo di colpe! (13) Gli esseri esistono grazie al cibo, il cibo trae origine dalla pioggia, la pioggia nasce dal sacrificio, il sacrificio trae origine dall’azione (14). Se l’uomo quaggiù non contribuisce a far girare la ruota che così è stata messa in moto, o Arjuna, impura è la sua vita […] ed egli vive invano (16).

Ergo, i testi sacrificali chiaramente dipingono la catena causale dell’esistenza, sia in senso discendente sia ascendente: sacrificio, pioggia, piante, cibo e procreazione (Śatapathabrāhmaṇa 3.7.4.4; si vedano anche Maitryupaniṣad 6.37 e Mānavadharmaśāstra 3.76):

Egli asperge la vittima sacrificale con la formula: “Tu per l’acqua, Tu per le piante…”, quando poi la vittima è presente egli la purifica ritualmente. In effetti, quando piove le piante crescono sulla terra; proprio mangiando le piante e bevendo l’acqua si origina la linfa vitale, la forza; da essa il seme e dal seme gli animali […]. Inoltre, la Taittirīya Upaniṣad (2.1-2) contiene una delle più chiare formulazioni sul cibo e la manifestazione: Da questo Sé sorse invero lo spazio, dallo spazio il vento, dal vento il fuoco, dal fuoco l’acqua, dall’acqua la terra, dalla terra le erbe, dalle erbe il cibo, dal cibo il seme e dal seme la persona. Questa, in verità, è la persona che consiste nell’essenza di cibo (annamaya). Questa invero è la sua testa; questo il suo fianco destro; questo il suo fianco sinistro; questo il suo tronco; questa la sua parte inferiore, la sua base. Rispetto a ciò vi è anche questo verso: Dal cibo, invero, sono prodotte le creature! Qualsiasi creatura dimori sulla terra. Inoltre, grazie al cibo, invero, esse vivono e, infine, in esso esse trapassano. Perché, in realtà, il cibo è il principale degli esseri, per questo è chiamato rimedio universale (sarvauṣadha). In verità, ottengono ogni cibo coloro che adorano il principio assoluto come cibo, in quanto, il cibo è davvero il primo degli esseri. Dal cibo nascono le cose create; grazie al cibo, una volta nate, crescono. Esso, il cibo, compie entrambe le azioni, è mangiato (adyate) e mangia (atti) gli esseri, per questo è chiamato appunto “cibo” (anna).

La tradizione successiva del Vedānta non duale (advaita), prende le mosse dalla Bhṛguvallī (la terza parte della Taittirīya Upaniṣad) e parla della dottrina dei cinque involucri o guaine (pañcakośa), anche se l’insegnamento radicale dell’Upaniṣad non menziona il termine kośa, introdotto poi dai commentatori. Ecco che Varuṇa per istruire Bhṛgu elenca cinque domini partendo dal più grossolano al più rarefatto, riconoscendoli via via come il principio supremo (brahman), ossia quel principio che rimane stabile laddove ogni altra cosa è sottoposta al divenire. La tradizione esegetica successiva interpreta questi cinque come involucri idealmente concentrici i quali, al modo in cui un fodero cela la lama di una spada, sono come guaine che nascondono la vera natura del Sé, differente da tutti questi, ma che se ne identifica (abhimānin) man mano. Per esempio, durante la veglia l’umano s’identifica col corpo grossolano (sthūlaśarīra) e con l’involucro fatto di cibo (annamayakośa, Taittirīya Upaniṣad 3.2.2) che, nelle fasi preliminari, è considerato come il brahman, il principio da cui sorge, su cui si sviluppa e in cui s’immerge ogni esistenza fisica. Dunque, queste riflessioni determinano che nel capitolo successivo della medesima Taittirīya Upaniṣad (3.7-9), si presenti il significato cosmico del cibo:

Nessuno deve parlar male del cibo! Questa è la regola! Il respiro invero è cibo. Il corpo è mangiatore di cibo. Il corpo è stabilito sul respiro; il respiro è stabilito sul corpo. Per questo, il cibo è stabilito sul cibo! Chi sa che il cibo è stabilito sul cibo, questi diviene a sua volta stabile. Diviene un mangiatore di cibo, un possessore di cibo. Costui diviene eminente in quanto a discendenza, bestiame, splendore di conoscenza sacra e di grande fama. Nessuno deve parlar male del cibo! Questa è la regola! L’acqua, invero, è cibo. La luce è mangiatore di cibo. La luce è stabilita sull’acqua; l’acqua è stabilita sulla luce. Per questo, il cibo è stabilito sul cibo! Chi sa che il cibo è stabilito sul cibo, questo diviene a sua volta stabile, diviene un mangiatore di cibo, un possessore di cibo. Costui diviene eminente in quanto a discendenza, bestiame, splendore di conoscenza sacra e di grande fama. Ognuno deve creare per sé molto cibo. Tale è la regola! La terra, invero, è cibo. Lo spazio è il mangiatore di cibo. Lo spazio è stabilità sulla terra; la terra è stabilita sullo spazio. Per questo, il cibo è stabilito sul cibo! Chi sa che il cibo è stabilito sul cibo, questi diviene a sua volta stabile, diviene un mangiatore di cibo, un possessore di cibo. Costui diviene eminente in quanto a discendenza, bestiame, splendore di conoscenza sacra e di grande fama.

Questi passi upaniṣadici mostrano una correlazione tra il cibo e il suo consumatore. Concettualmente, uno non può esistere senza l’altro; fisicamente, l’uno viene trasformato nell’altro: chi era prima mangiatore, diverrà mangiato e, anch’esso, a sua volta, diverrà nutrimento di un terzo. Gli esseri mangiano e sono mangiati. L’intera manifestazione, l’intero universo, è un’immensa catena alimentare in cui, a seconda delle circostanze, ogni anello è tanto cibo quanto mangiatore. Esattamente questo afferma in seguito ancora la Taittirīya Upaniṣad (3.10.6), passo in cui la consapevolezza di questa catena conduce l’essere umano a una sorta di scioccante serenità:

Ah la meraviglia! Ah la meraviglia! Ah la meraviglia! Io sono cibo! Io sono cibo! Io sono cibo! Io sono mangiatore di cibo! Io sono mangiatore di cibo! Io sono mangiatore di cibo!

Il cibo, dunque, non solo è un elemento centrale per la manifestazione, ma è anche detto essere sorgente d’immortalità o l’immortalità stessa. Nella parte conclusiva di ogni sacrificio, ossia nel rito in cui si consumano le offerte, il cibo è chiamato amṛta “immortale o nettare d’immortalità”. Prima di mangiarlo, una persona sorseggia dell’acqua dicendo: “Tu sei il seggio dell’amṛta!” E poi, dopo mangiato, sorseggia ancora dell’acqua, dicendo: “Tu sei la coperta dell’amṛta!” L’uso rituale del nutrimento sottolinea tanto la sua centralità dal punto di vista sociale e cosmico quanto la sua natura relazionale. Il cibo è un elemento centrale di un’attività cosmica che mantiene sia il cosmo sociale sia quello fisico. Per cui, il cibo è immagine di pienezza solo quando condiviso (Taittirīya Upaniṣad 3.10.1). I testi normativi ammoniscono a non cucinare solo per se stessi, in quanto quel cibo si trasforma in veleno (Baudhāyana Dharmasūtra 2.5.18). Come già detto, questi aspetti cosmici e cosmogonici, con le loro ricadute sociali, hanno un immediato riverbero sulla natura individuale umana in tutte le sue sfaccettature, dalla più grossolana alla più sottile. Ciò si determina in virtù di un’equazione/omologia (bandhu) onnipresente nella riflessione sud-asiatica, che identifica il piano microcosmico con quello macrocosmico e viceversa, la quale si esprime attraverso una stringa para-testuale: yathā piṇḍāṇḍe tathā brahmāṇḍe “come nell’involucro individuale così in quello universale”. Ciò si intravede nuovamente nella terza liana (vallī) della Taittirīya Upaniṣad (3.1-2), in cui questa omologia e complementarietà è narrata su vari livelli mediante una storia, prendendo ancora anna come primo gradino dell’incremento semantico. Varuṇa ha un figlio veggente di nome Bhṛgu a cui insegna il Veda, la sapienza sacra. Durante il suo cursus studiorum Bhṛgu sviluppa sempre più interesse per la scienza somma, la scienza che conduce a realizzare l’Assoluto (brahmavidyā). Cosicché, egli si fa forza e, al fine di conoscere l’Assoluto brahman, si avvicina al padre implorandolo di essere istruito riguardo a questa scienza:

“Insegnami, o Signore, il brahman!” Varuṇa, ben lieto, istruì il figlio in questo modo: “O caro, sappi che Esso è cibo/alimento, è soffio/respiro (prāṇa), vista, udito, mente, parola.” Aggiunse subito dopo: “Colui dal quale, invero, gli esseri nascono, grazie al quale, una volta nati, vivono, nel quale rientrano allorché muoiono, questo devi conoscere: questo è il brahman.” Bhṛgu allora praticò l’ascesi; comprese che il brahman è cibo/alimento (annam brahmeti vyajanāt), perché in verità dal cibo nascono gli esseri, grazie al cibo, una volta nati, vivono, nel cibo rientrano allorché trapassano. Una volta compreso ciò, di nuovo egli si avvicinò al padre Varuṇa […].

Questo brano significa che il cibo, il soffio, la vista, l’udito, la mente, la parola, cioè tutte le facoltà sensoriali insieme ai loro controllori sono strumenti per conoscere l’Assoluto. Come conoscere ciò? Varuṇa dice al figlio: “Vai e pratica l’ascesi (tapas), così conoscerai, realizzerai ciò”. In primis, nella sua tensione contemplativa, Bhṛgu scopre che anna è brahman, che il cibo è il principio assoluto, seme e fondamento di ogni nascita ed esistenza. Il corpo dei genitori è nutrito e costituito di cibo ed è forgiato da sette costituenti (saptadhātu)3 . Sperma e ovulo si sono forgiati grazie al cibo; tutta la loro vita si basa sul cibo e, infine, alla conclusione di essa gli elementi corporei rientrano nella catena alimentare. Questo è quanto realizza Bhṛgu nella prima fase della sua riflessione. Per il tema in oggetto, abbiamo un altro importante e notissimo insegnamento upanisadico, ossia “la dottrina dei cinque fuochi” (pañcāgnividyā, Chāndogya Upaniṣad 5.2-10).4 Il brano vede protagonista il giovane studente brahmanico Śvetaketu, figlio di Āruṇi Gautama, che si reca alla corte del re del Pañcāla, Pravāhaṇa Jaivali. Ivi, il sovrano lo interroga con cinque domande, tra le quali una risulta decisamente enigmatica:

“Ragazzo, tuo padre ti ha istruito?”,
“Certamente signore”, risponde Śvetaketu (1).
“Allora, sai tu come alla quinta oblazione le acque assumano voce d’uomo?”,
“No signore” (3).
“Ma allora come hai potuto dire che sei istruito. Colui che non conosce ciò come può dirsi istruito?”.

Il ragazzo torna allora rattristato dal padre e gli riferisce l’accaduto. Udita la narrazione di Śvetaketu anche il venerabile padre Āruṇi Gautama si rende conto di non conoscerne le risposte. Quindi entrambi5 partono per la corte del re Pravāhaṇa che li accoglie e li convoca per il mattino seguente. Ivi il padre chiede di essere istruito riguardo alle cinque domande e il re acconsente. Parafrasando le risposte, si delinea un ciclo che va dai cieli, dal Sole, ai suoi raggi, che passa poi attraverso la luna, le piogge, la terra, le piante, l’uomo, che se ne ciba, producendo il proprio seme e, come ultimo anello, la donna che ne diviene il ricettacolo. In tal modo nasce l’embrione e viene alla luce un nuovo essere e si spiega l’arcano della domanda, ossia come alla quinta offerta le acque possono parlare con voce umana. La Chāndogya Upaniṣad (6) in seguito aggiunge molti temi legati alla natura del cibo, nelle sue componenti grossolane e sottili. Com’è ovvio, la trattazione non è sistematica, quindi va ricostruita in qualche modo. Ecco che la Chāndogya Upaniṣad (6.2-5) narra di nuovo del brillantissimo figlio di Uddalaka Āruṇi, il giovane Śvetaketu. Di ritorno dal suo noviziato di dodici anni, Śvetaketu – splendente di fulgore bramanico, tutto fiero e orgoglioso della propria erudizione e vanamente tronfio – viene interrogato dal padre:

“O Śvetaketu! Dato che, mio caro, tu sei contento di te, orgoglioso delle tue conoscenze e tutto soddisfatto, hai tu mai ricercato quell’insegnamento per il quale ciò che non si è udito è come se lo si avesse udito, ciò che non si è pensato e come lo si avesse pensato, ciò che non si è conosciuto è come se lo si fosse conosciuto?”

Śvetaketu è allo scuro di quanto gli chiede il padre che, di conseguenza, inizia a istruirlo:

All’inizio, mio caro, null’altro vi era che l’essere (sat), uno (eka), invero (eva), senza secondo (advitīya) […]. Allora l’essere pensò: “Possa io diventare molti! Possa io generare!” E così produsse il calore (tejas). Il calore pensò: “Possa io diventare molti! Possa io generare!” E produsse le acque. Questa è la ragione per la quale tutte le volte che un uomo piange o suda [per via del calore] si produce acqua. Le acque pensarono: “Possiamo noi diventare molte! Possiamo noi generare!” Esse produssero il cibo (anna). Questa è la ragione per la quale ovunque piova vi è cibo in abbondanza. È dall’acqua che nasce il cibo! (2). Quella divinità, l’essere originario, pensò: “Possa io penetrare, mediante questo spirito vivente (jīvātman), in codeste tre deità, possa io in loro stabilire una distinzione di nome e forma!” (3).

Di seguito il testo narra di varie forme del calore, dell’acqua e del cibo, ossia il colore rosso del fuoco, del sole, della luna, del lampo sono manifestazione del calore; il colore bianco quella dell’acqua; il colore nero quella del cibo. I ricettacoli di quest’insegnamento in virtù di esso conobbero ogni cosa:

Tutto ciò che appariva loro rosso, lo riconoscevano come manifestazione del calore; ciò che appariva loro bianco come manifestazione dell’acqua e tutto ciò che appariva loro nero come manifestazione del cibo. Ciò che appariva loro indistinto lo riconoscevano come mescolanza di questi tre principi. Ora, mio caro, in che modo ciascuno di questi tre principi sia triplice nell’essere umano, io te lo insegnerò (4). Il cibo, allorché viene mangiato, si divide in tre: gli elementi più grossolani diventano deiezioni, quelli mediani diventano carne e i più sottili diventano mente (manas). Le acque, allorché vengono bevute, si dividono in tre: gli elementi più grossolani diventano urine, quelli mediani diventano sangue e i più sottili diventano soffio vitale (prāṇa). Il calore, allorché viene assorbito, si divide in tre: gli elementi più grossolani diventano ossa, quelli mediani diventano midollo e i più sottili diventano parola (vāc). La mente, mio caro, in verità è fatta di cibo, il soffio vitale d’acqua, la parola di calore/fuoco […] (5)

Il testo continua con una prova rilevante che il padre fa compiere a Śvetaketu (Chāndogya Upaniṣad 6.7):

“L’essere umano, mio caro, è composto di sedici parti. Resta pure quindici giorni senza mangiare, ma bevi ciò che ti pare, quando ti pare. Il soffio vitale è fatto d’acqua: fintanto che tu berrai esso non ti verrà a mancare.” Quindi, durante quindici giorni egli si astenne dal cibo. Si avvicinò allora al padre e gli chiese: “Che debbo dire?”. “Recitami delle strofe vediche (ṛc), delle formule sacrificali (yajuṣ) e dei canti (sāman), o caro!”, disse il padre. Il figlio rispose: “In verità, non mi sovvengono.” Il padre allora gli disse: “Se, mio caro, di un gran fuoco non resta che carbone acceso, della dimensione di una lucciola, questo non è sufficiente per generare una grande fiamma. Egualmente, mio caro, delle tue sedici parti non ne resta che una, che non è abbastanza forte affinché tu possa ricordarti del Veda che hai appreso. Mangia quindi, e poi mi spiegherai!” Egli mangiò, quindi tornò da suo padre e, a tutte le domande che questi gli pose, rispose perfettamente. Suo padre, allora, gli disse: “Se di un grande fuoco non resta che carbone acceso, della dimensione di una lucciola, lo si può rianimare coprendolo di erbe secche e da questo rifare una grande fiammata. Egualmente, mio caro, delle tue sedici parti non ne restava che una sola: rianimata con nutrimento essa ha ripreso fuoco, ed ecco che è sufficiente affinché tu ti ricordi dei Veda. In verità, o caro, il mentale è fatto di cibo; il soffio vitale è fatto d’acqua e la parola di calore [il cibo produce calore]”. Tale è un insegnamento che egli ricevette da lui.

La conseguenza diretta non può che essere un’affermazione che l’Upaniṣad stessa propone più avanti. In effetti, la Chāndogya Upaniṣad (7.26.2) lega chiaramente il fine ultimo alla correttezza e purezza nell’alimentazione:

Sulla purità del cibo si fonda la purità della mente, sulla purità della mente la sicura consapevolezza; sull’acquisizione della consapevolezza la totale liberazione da tutti i legami.

Dunque, concludendo, va detto che il corpo è il supporto che permette tanto le azioni nel mondo quanto le riflessioni. Senza corpo non si può attingere alcun fine e, dunque, nemmeno si può arrivare alla liberazione. Il corpo è fatto di cibo, quello assimilato da chi ci ha generato, insieme a quello delle generazioni precedenti. Il corpo fatto di cibo sarà in futuro la causa delle generazioni successive: esso non è solo supporto e sostrato di attività e qualità fisiche, bensì è a sua volta alimentato e compattato da agenti sottili. Questi stessi agenti sottili compongono il corpo sottile, ossia il composto psichico dell’individuo e indirizzano quell’essere verso specifici tipi di azione, di pensiero e di condotta invece di altri.
Ecco perché il cibo è effettivamente l’essenza costitutiva dei corpi, nelle sue componenti fisiche ed extra-fisiche. Essere consapevoli della sua natura come parte di una catena, non ci pone epistemologicamente solo nella posizione del mangiatore, bensì apre le porte a un’inversione tanto epistemica quanto ontologica che culmina nell’affermazione “io sono cibo” (aham annam). Resta da dire, per ora, che mutatis mutandis applicata al mondo di oggi, questa consapevolezza antica – realmente ecologica nel senso più alto del termine – potrebbe condurre gli umani verso approdi inaspettati e, una volta per tutte, risolvere brillantemente l’annoso conflitto natura-cultura.

    1. Il più delle volte il cibo cotto e, in primis, il riso il nutrimento per eccellenza, poiché è bianco come il seme umano, cresce nell’acqua, ha bisogno di essere trapiantato per fruttificare e può crescere in qualsiasi stagione.
    2. Lo stesso che nella Chāndogya Upaniṣad (5.11.2 ss.) è identificato al Sé.
    3. Vale a dire linfa (rasa), sangue (rakta), carne (māṃsa), grasso (medha), ossa (asthi), midollo (majja), seme maschile (śukra) e sangue femminile (śoṇita).
    4. Troppo esteso e articolato per riportarlo interamente in questa sede.
    5. Per quanto le narrazioni di Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad e Chāndogya Upaniṣad sulla “scienza dei cinque fuochi” si equivalgano, a tal proposito sono invece divergenti, ossia per la Chāndogya Upaniṣad il ragazzo rifiuta di tornare alla corte del re.