Siamo tutti coinvolti in un modo o nell’altro nel dibattito sui progressi tecnologici che segnano le trasformazioni epocali in cui stiamo vorticosamente vivendo. Una caratteristica fondante nella nostra religione è la tradizione orale. Volgendo lo sguardo al passato tratterò dell’importanza della tradizione orale su cui si è fondato il sistema educativo nell’antica India.
Un aspetto fondamentale di quel sistema, che chiaramente lo distingue dalle modalità del modello moderno di istruzione, è la sua completa indipendenza da aiuti e mezzi esteriori come l’apprendimento attraverso l’arte della scrittura. Tutt’oggi non si conosce ancora l’epoca in cui la scrittura si sia formalmente consolidata in India.
Ma ciò che deve essere notato in questa connessione, è che anche quando l’arte della scrittura diventò prevalente nel paese, i maestri e gli educatori evitavano deliberatamente di utilizzarla per gli scopi di istruzione, perché vigeva l’opinione tradizionale che assolutamente condannava l’acquisizione della conoscenza da sorgenti scritte. Questa opinione è riportata da innumerevoli fonti: dal Veda, dal Mahābhārata e dal Tantravārtika di Kumārila. La conoscenza era (ed è) troppo sacra per essere lasciata esistere come un oggetto esterno: essa deve vivere nella memoria dell’essere umano come una parte di sé per essere attentamente e devotamente custodita nel suo cuore, e non come qualcosa di esterno e alieno a lui.
Alla formazione e allo sviluppo della memoria era accordato un posto estremamente importante nell’antico sistema di educazione. Il potere della memoria verbale e visiva era sviluppato a un grado incredibile se paragonato ai tempi attuali. Consideriamo inoltre che questo meraviglioso sistema mnemonico ha preservato e trasmesso per migliaia di anni, ininterrottamente, conoscenze di una immensa vastità, con una tale accuratezza e precisione da lasciare stupefatti persino insigni studiosi come Max Müller.
Lo stesso Müller osservava: “Questa immensa conoscenza è stata tramandata sino a noi con una tale esattezza e meticolosità che difficilmente nella intera letteratura e scienza trasmessa si trovano modificazioni (nel senso proprio della parola) o anche accenti impropri. L’educazione è stata giustamente definita come la trasmissione della vita ‘da vita in vita” (Max Müller).
Questo ideale sembra essere stato letteralmente realizzato attraverso un antico sistema pedagogico. Naturalmente il sistema aveva, e ha, logicamente posto delle condizioni di ammissione che escludevano tutti coloro che non erano sufficientemente qualificati per attitudine, temperamento e carattere per poter ricevere istruzioni riguardo a questa conoscenza. Secondariamente il sistema contribuiva a preservare e propagare il suo patrimonio conoscitivo in una maniera straordinaria e unica.
Al giorno d’oggi la conoscenza umana è raccolta e conservata in libri nelle biblioteche (anche digitali) e ciò la rende soggetta a tutti quei rischi ai quali tutte le cose materiali sono esposte. Sappiamo dalla storia a quanti vandalismi di matrice ideologica e politica, siano state deliberatamente esposte biblioteche e università, per eliminare la conoscenza in quei luoghi custodita, a volte semplicemente sotto l’impulso di una mentalità bigotta.
Molte biblioteche e simili, se non vittime della malizia umana, hanno dovuto soccombere a eventi naturali come incendi, alluvioni, terremoti. Ma la mente umana non è materiale deperibile, bensì può essere il deposito della nostra antica, conoscenza accumulata.
“Quando l’individuo muore la società continua a vivere.” La cultura indiana è preservata immortale attraverso una ininterrotta successione di maestri. L’educazione, l’istruzione, non era vista come un fine in sé stesso, ma solo un mezzo per un fine: l’ottenimento di Brahmajñāna; la sacra Conoscenza o conoscenza dell’Assoluto.
La pratica dello yajña, il sacrificio, e di altri atti specifici preposti a questo scopo, è spesso menzionata nella letteratura vedica, tuttavia l’enfasi maggiore è posta sull’ascolto e sulla riflessione, śravaṇa e manana, degli insegnamenti (upadeśa) dei maestri (ācārya).
L’importanza di questi studi non è mai sufficientemente lodata; essi sono definiti con il termine tecnico svādhyāya. L’efficacia di svādhyāya è posta in evidenza dallo Śatapatha Brāhmaṇa che afferma: “Dallo studio e dall’insegnamento si ottiene calma della mente (yuktamana) indipendenza da altri, migliore salute, controllo dei sensi, pace, migliore percezione, successo e la facoltà di aiutare le persone nel perfezionamento di sé”.
Naturalmente è ampiamente ribadita la futilità dello studio “fai da te”.
La necessità di un maestro è ritenuta indispensabile per l’ottenimento della conoscenza.
La Muṇḍaka Upaniṣad (1.2.3) recita: “Lasciate che lui (lo studente), per comprendere questo, prenda il combustibile nelle sue mani (desiderio per la conoscenza) e avvicini un maestro che sia sapiente, saggio e sia completamente immerso nel Brahman.”
Naturalmente anche lo studente non è esente da doveri e qualificazioni.
La Maitrāyaṇīya Upaniṣad precisa: “Si riveli questa segreta conoscenza solo a colui che sia devoto al suo maestro, abbia i sensi controllati, e possieda tutte le necessarie qualità.”
La Chāndogya Upaniṣad racconta il mito di Indra, il re degli esseri luminosi del pantheon vedico, e di quando fu obbligato a vivere come studente, presso il creatore Prajāpati, per ben centouno anni allo scopo di ottenere la perfezione della conoscenza. Tutto ciò per esprimere una semplice verità: la conoscenza nelle mani sbagliate si rivela disastrosa per sé e per l’intera società.
Il periodo di apprendimento dello studente, brahmacārin, era di minimo di dodici anni e poteva proseguire sino a trentadue o quarantotto o, come racconta il mito di Indra, estendersi incessantemente fino ai centouno anni, indicando un periodo indefinito per realizzare la conoscenza suprema.
Vi erano doveri esteriori e interiori per lo studente.
Tra i doveri esteriori, la prima condizione era che lo studente vivesse nella casa del maestro e della sua famiglia; ne diveniva a far parte, avendo il compito di accudire sia la casa sia gli animali, essenzialmente il bestiame. Era anche usuale che lo studente, affinché sviluppasse lo spirito di umiltà, andasse a mendicare il cibo per il Maestro.
Come riporta un noto verso dello Śatapatha Brāhmaṇa: “avendo reso sé stesso povero e divenuto libero dalla vergogna e dall’orgoglio, lui, il brahmācarin, mendichi il cibo”.
Un altro dovere del brahmacārin era quello di custodire il fuoco sacro, alimentarlo con il combustibile, il samithi, il cui significato spirituale è di accendere la mente con il fuoco della sacra conoscenza. Considerando la tenera età dello studente quando era ammesso agli studi, è stupefacente pensare alla vasta quantità di elementi che venivano acquisiti e immagazzinati nel primo stadio di educazione. Gli studi iniziavano con la conoscenza della pronuncia perfetta dei versi vedici con tutto quello che esso implica: la conoscenza di fonetica, metrica, grammatica ed etimologia.
Le pratiche esteriori e le regole servivano per sviluppare nei giovani studenti quelle condizioni interiori (pratyāsanna, dirette) o attributi mentali e morali che li avrebbero resi degni di ricevere sia le più alte conoscenze filosofiche e scientifiche, sia la conoscenza del Brahman stesso, soggetto speciale delle Upaniṣad.
Il Gopatha Brāhmaṇa definisce la necessità per lo studente (brahmacārin) di superare l’orgoglio di classe, la fama, il sonno, l’ira, l’edonismo, l’invidia, la gelosia, il possesso. Deve mostrare calma, autocontrollo, entusiasmo, umiltà, modestia, pazienza, amicizia; oltre a osservare purezza del cibo e avere amore per la natura.
Alla fine dell’apprendistato, lo studente è esortato a diventare un capofamiglia e a vivere tale stadio, continuando lo studio del Sé e l’autodisciplina. Così il maestro al compimento degli studi esorta e accomiata lo studente con queste parole:
“Di’ sempre quello che è vero, compi il tuo dovere; non trascurare lo studio del Veda. Dopo aver presentato i doni al tuo maestro, fai attenzione a che il filo della tua appartenenza non si rompa. Non deviare dalla verità, dal dovere; non trascurare la salute, non trascurare la prosperità della società, non trascurare lo studio e l’insegnamento; non trascurare l’attività sacrificale a Dio e agli antenati. Considera la madre come Dio (mātṛdevo bhava), il padre come Dio (pitṛdevo bhava), il maestro come Dio (ācāryadevo bhava), l’ospite come Dio (atithidevo bhava). Tutte le buone azioni, quelle devono essere praticate, e non altre! Tutte le persone nobili, sapienti e migliori di noi, a quelle mostra rispetto. Qualsiasi dono deve essere dato con fede e non senza fede, con gioia, con modestia, con senso del dovere. Se sorge un qualche dubbio nella tua mente riguardo agli atti sacri o riguardo alla condotta, in quel caso rivolgiti ai nobili saggi che possiedono buon giudizio e che hanno una buona condotta loro stessi e sono devoti al dovere. Questo è il mio ammonimento! Questo è l’insegnamento! Questo è il vero scopo delle Upaniṣad, del Veda! Questo è il comando! Questo devi osservare, questo devi osservare!”
In conclusione, una brevissima riflessione sulla tecnologia. Se l’albero si vede dai suoi frutti, questi nella società odierna sono acerbi e amari. Potremmo dire che questa è l’epoca dello sviluppo tecnologico con implicazioni molto positive e altre oscure e preoccupanti.
Il problema non è la tecnologia in sé stessa, anche se in alcune sue forme favorisce la diminuzione della memoria e della concentrazione, l’isolamento sociale, la debolezza morale, spirituale, e l’inerzia. Il vero problema è l’uomo che, con il suo egoismo, la sua ambizione e il suo desiderio di potere, ne può trasformare l’utilizzo in forme di distruzione, di dominio anche intellettuale, e di sopraffazione.
L’augurio è che l’uomo ritrovi quella parte di sé che illumina l’intelletto, apre la vastità del cuore, nell’amore, nell’amicizia, nella pace e che apprenda a vedere sé stesso in ogni forma di vita, come un tutto che deve essere protetto e custodito.
