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In quel vasto mare che è l’innologia induista un posto di primo piano per popolarità e diffusione spetta oggi al Rudrāṣṭaka, “Inno in otto (aṣṭa) versi a Rudra”, facente parte del Rāmcaritmānas, “Il lago delle gesta di Rām”, un poema dedicato alla storia di Rāma scritto dal santo poeta Tulsīdās, poema che nella letteratura hindī ha un’importanza paragonabile a quella della Divina Commedia nella letteratura italiana. Oltre a essere un capolavoro letterario, è anche un autorevole testo sacro, la cui diffusione a livello popolare è maggiore di quella di qualsiasi altro testo induista, almeno nel cosiddetto hindī saṃsār, il “mondo hindī”, cioè nel vastissimo territorio in cui la hindī è parlata o facilmente capita. È un fatto curioso che l’inno śivaita in sanscrito che, almeno nell’India settentrionale, è fra i più noti, se non il più noto in assoluto, sia stato composto da un poeta rāmaita e sia contenuto in un poema scritto (con l’eccezione di pochi versi sanscriti) in avadhī, una lingua che, per via di semplificazione, si può considerare una forma di hindī antica. Basta digitare “Rudrashtaka” o “Namamishamishana” su un motore di ricerca o su YouTube per rendersi conto della diffusione dell’inno: compariranno infatti decine di siti dove è possibile ascoltarlo, anche dalla voce di artisti famosi, come Pandit Jasraj e Anoop Jalota. Si può dire che il Rudrāṣṭaka sia diventato un tratto distintivo della bhakti śivaita settentrionale. Ne è un esempio “Dharm”, un multi-premiato film del 2007, diretto da Bhavna Talwar e ambientato a Varanasi, dove il protagonista, Pandit Chaturvedi (interpretato da Pankaj Kapoor), un venerato e dotto paṇḍit, molto ligio ai più severi dettami della tradizione, canta abitualmente il Rudrāṣṭaka durante la sua pūjā quotidiana. A che cosa è dovuta la popolarità di questo inno? Un fattore determinante è certamente quello di esser contenuto nel Rāmcaritmānas (in VII, 108, 1-9), ma le ragioni principali della popolarità del Rudrāṣṭaka sono forse il ritmo e la grande musicalità dei suoi versi, orecchiabili e facili da memorizzare, anche per il frequente uso di allitterazioni e assonanze, nonché per la semplicità della lingua che lo rende comprensibile anche per i parlanti hindī (o altre lingue indiane) che non conoscono il sanscrito. Il contenuto poi presenta la figura di Śiva a partire dalla sua identità col Brahman, l’Assoluto al di là di nome e forma, incomprensibile con la mente e indescrivibile con le parole (cioè il suo aspetto nirguṇa, “non qualificato”), per arrivare a tratteggiare gli elementi principali della sua iconografia quando assume il ruolo di Īśvara, il supremo Signore che è il volto personale dell’Assoluto (il suo aspetto saguṇa, “qualificato”). Eppure sappiamo con certezza che Tulsīdās era rāmaita, vale a dire che per lui era Rāma, e non Śiva, a rivestire il ruolo di Īśvara in quanto aspetto qualificato del Brahman, come chiaramente traspare dal Rāmcaritmānas, nel quale Śiva ha un posto molto importante, ma subordinato a Rāma, di cui è grande devoto. Tuttavia Tulsīdās non esita ad attribuire il ruolo di Signore supremo a Śiva quando nel poema a parlare è un devoto śivaita, in accordo con lo spirito di apertura, di inclusione e di tolleranza che caratterizza tutta la sua opera e il suo stesso personaggio, almeno per quanto ci è dato di conoscerlo attraverso l’agiografia. Il devoto sulla cui bocca Tulsīdās pone il Rudrāṣṭaka è un brahmano il cui discepolo (che sarà destinato a rinascere come il corvo Bhuśuṇḍi) è appena stato maledetto da Śiva per aver mancato di rispetto al Guru. Lungi dall’adirarsi, il compassionevole brahmano cerca di impetrare per il discepolo il perdono di Śiva, compiacendolo con questo inno di lode. L’episodio fa parte della storia del corvo Bhuśuṇḍi con cui si chiude il Rāmcaritmānas (Bhuśuṇḍi-carit VII, 52,1-125), storia che è anche la parte più originale del poema: ad oggi, infatti, non ne è ancora stata rintracciata una possibile fonte. Il Rudrāṣṭaka doveva avere un’importanza speciale anche per il suo stesso autore, dato l’uso del sanscrito che, nel poema, Tulsīdās riserva a pochi versi, quelli a cui intende conferire particolare solennità o rilievo, cioè ai versi che si trovano in apertura delle sette sezioni (kāṇḍ) del Rāmcaritmānas e a un altro inno, l’Atri stuti (“Inno di lode di Atri”), rivolto a Rāma dall’asceta Atri nell’Araṇya-kāṇd (in III, 4, 1-12). Anche questo inno è molto celebre, è dotato di un’estrema musicalità ed è facilmente reperibile in rete (digitando “Atri stuti” o “Namami bhakta vastalam”), ma la sua notorietà non è pari a quella del Rudrāṣṭaka. Oltre alla traduzione del Rudrāṣṭaka, ne forniamo qui anche il testo traslitterato non solo a beneficio di chi conosce il sanscrito, ma anche perché chi desiderasse trovarlo in rete possa seguirne il canto o la recitazione.

  1. namāmīśamīśāna nirvāṇarūpaṃ / vibhuṃ vyāpakaṃ brahma vedasvarūpaṃ //
    nijaṃ nirguṇaṃ nirvikalpaṃ nirīhaṃ / cidākāśamākāśavāsaṃ bhaje’haṃ ///li>
  2. nirākāramoṃkāramūlaṃ turīyaṃ / gīrā gyāna gotītamīśaṃ girīśaṃ //
    karālaṃ mahākālakālaṃ kṛpālaṃ / guṇāgāra saṃsārapāraṃ nato’haṃ //
  3. tuṣārādri saṃkāśa gauraṃ gabhīraṃ / manobhūta koṭi prabhā śrī śarīraṃ //
    sphuranmauli kallolinī cāru gaṅgā / lasadbhāla bālendu kaṇṭhe bhujaṅgā //</em
  4. calatkuṇḍalaṃ bhrū sunetraṃ viśālaṃ / prasannānanaṃ nīlakaṇṭhaṃ dayālaṃ //
    mṛgādhīśacarmāmbaraṃ muṇḍamālaṃ / priyaṃ śaṅkaraṃ sarvanāthaṃ bhajāmi //
  5. pracaṇḍaṃ prakṛṣṭaṃ pragalbhaṃ pareśaṃ / akhaṇḍaṃ ajaṃ bhānukoṭiprakāśaṃ //
    trayaḥśūla nirmūlanaṃ śūlapāṇiṃ / bhaje’haṃ bhavānīpatiṃ bhāvagamyaṃ //
  6. kalātīta kalyāṇa kalpāntakārī / sadā sajjanānandadātā purārī //
    cidānānda sandoha mohāpahārī / prasīda prasīda prabho manmathārī //
  7. na yāvad umānātha pādāravindaṃ / bhajantīha loke pare vā narāṇāṃ //
    na tāvat sukhaṃ śānti santāpanāśaṃ / prasīda prabho sarvabhūtādhivāsaṃ //
  8. na jānāmi yogaṃ japaṃ naiva pūjāṃ / nato’haṃ sadā sarvadā śaṃbhu tubhyaṃ //
    jarā janma duḥkhaugha tātapyamānaṃ / prabho pāhi āpannamāmīśa śambho //
  9. rudrāṣṭakamidaṃ proktaṃ vipreṇa haratoṣaye /
    ye paṭhanti narā bhaktyā teṣāṃ śambhuḥ prasīdati //

Traduzioni

  1. Mi inchino al Signore Īśāna, la cui forma è nirvāṇa, onnipresente, onnipervadente, il cui modo proprio di presentarsi sono i Veda, che sono il Brahman stesso, intimo [a tutti gli esseri], privo di qualità, privo di differenziazioni, privo di desideri. Colui che è lo spazio della Coscienza e che in quello spazio dimora io adoro.
  2. Senza forma, Radice della sillaba Oṃ, trascendente, Signore al di là della parola, della conoscenza e dei sensi, Signore della Montagna, tremendo, Morte della grande morte, misericordioso, miniera di virtù, al di là del saṃsāra, a Lui mi inchino.
  3. Bianco come le vette dell’Himālaya, imperscrutabile, il cui venerabile corpo ha lo splendore di miriadi di Kāmadeva, con le ondose acque della leggiadra Gaṅgā sulla sfavillante crocchia ascetica, con il crescente di luna sulla luminosa fronte e serpenti intorno al collo,
  4. con orecchini a cerchio pendenti, belli i sopraccigli e i grandi occhi, sereno il volto, blu la gola, pietoso, con una pelle di tigre come vestito, con una collana di teschi, l’amato Śaṅkara, Signore d’ogni cosa, io adoro.
  5. Terribile, eminente, forte, supremo Signore, indiviso, non-nato, come miriadi di soli risplendente, che sradica la triplice sofferenza, che tiene in mano un tridente, io adoro Lui, lo sposo di Bhavānī, attingibile con l’amore.
  6. Tu che sei al di là del tempo, benefico, Tu che poni fine a ogni grande ciclo del tempo, Purārī, che sempre elargisci beatitudine alle persone pie, insieme di Coscienza e Beatitudine, Tu che dissipi l’ottenebramento [prodotto dalla māyā], sii propizio, sii propizio, o Signore nemico di Kāmadeva l’Agitatore della mente!
  7. Fino a quando non adorano i piedi di loto del Signore di Umā in questo mondo e nell’altro per gli uomini non ci sono felicità, pace, distruzione dell’afflizione.
  8. Non conosco lo yoga, il japa e neppure la pūjā, [ma] sempre e dovunque mi inchino a Te, Śambhu! Proteggi me, o Signore, che molto sono afflitto dal doloroso fluire di vecchiaia, [morte] e rinascita! Ho preso rifugio in Te, Signore Śambhu!
  9. Questo inno a Rudra in otto versi fu pronunciato dal brahmano per compiacere Hara. Śambhu è propizio agli uomini che lo recitano con amore devoto.

Note di commento:

1a. Īśāna, “Dominatore”, “Signore”, è un antico nome di Śiva, già attestato nel Ṛg-veda. Con questo nome, Śiva è venerato soprattutto come divinità tutelare del nord-est, la direzione dell’immortalità. Śiva ha forma di nirvāṇa perché per i suoi devoti è la Meta ultima raggiunta la quale c’è l’“estinzione” dell’io e la cessazione delle rinascite.
1d. “Spazio” (ākāśa) va qui inteso simbolicamente. Fra i cinque elementi “grossolani” (sthūla) di cui si compone il mondo percepibile (spazio, aria, fuoco, acqua e terra), lo spazio, per le sue caratteristiche di impalpabilità, trasparenza, informalità, sin dalle Upaniṣad è simbolo dell’Assoluto (ākāśa brahmeti, “lo spazio è il Brahman”, in Chāndogya-upaniṣad 3.18.1), soprattutto dell’Assoluto come Coscienza (cit, che nel testo diventa cid perché la consonante finale si sonorizza davanti a vocale), che è identica col Brahman-Ātman. L’espressione cidākāśa è spesso riferita allo spazio del cuore, l’insondabile intimità in cui è presente la Coscienza divina (v. 1c).
2a. “Trascendente” rende turīyaṃ, che propriamente andrebbe tradotto con “il Quarto”. Si tratta di un termine che, nella sua accezione tecnica, si riferisce al quarto di una serie di quattro elementi nella quale i primi tre, che presentano fra loro una certa continuità e congruità, appartengono al dominio fenomenico, transitorio, relativo; il quarto li supera invece completamente rimandando alla sfera trascendente. Così, per esempio, dopo i tre stati di veglia, sogno e sonno profondo, il quarto è lo stato di turīya, quello in cui la dimensione spazio-temporale è trascesa, così come la dualità di soggetto-oggetto e ogni altro condizionamento, e rimane unica e sola la luce della Coscienza (è questo il tema centrale della Māṇḍūkya-upaniṣad). L’appellativo turīyā è riferito anche alla Devī (con la ā lunga finale perché femminile), come in un celebre inno ascritto a Śaṅkarācārya, la Saundaryalaharī (v. 97 o 98, a seconda delle edizioni).
2b. La montagna è il Kailāśa, che è la sua dimora himālayana.
2c. “Morte della grande morte” rende mahākālakālaṃ. Non a caso il termine kāla, oltre che “morte”, significa anche “tempo”: tempo e morte sono infatti due facce della stessa medaglia dato che la vita di tutti gli esseri, in tutte le sfere d’esistenza è per sua natura intrisa di morte in quanto soggetta allo scorrere del tempo. Perciò la morte è qui definita “grande” (mahā): è grande perché è universale. Ma Śiva, nel suo aspetto di Kālakāla o di Mṛtyuñjaya (“Che trionfa sulla morte”), è l’uccisore della morte. Si tratta certo di un suo aspetto terrifico, ma anche misericordioso, perché sconfiggendo la morte Śiva libera i suoi devoti dalle sofferenze del ciclo di rinascita e rimorte: non è forse un caso che mahākālakālaṃ compaia qui fra karālaṃ, “terrifico”, e kṛpālaṃ, “misericordioso”, che solo apparentemente sembrano essere due aggettivi di segno opposto. La loro complementarietà è evidente nella storia di Mārkaṇḍeya, alla quale è particolarmente legata la manifestazione di Śiva come Kālakāla. Al fanciullo Mārkaṇḍeya era stata predetta una morte precoce al compimento del suo sedicesimo anno. Ma quando Yama, o Mṛtyu, il dio della morte, venne a prenderlo, egli stava facendo la pūjā a un liṅga dal quale sorse Śiva Kālakāla, che sferrò un calcio al petto di Yama e lo costrinse ad andarsene. Mārkaṇḍeya rimase così per sempre nella condizione di un sedicenne, diventando uno dei cirañjīvin, i “longevi” che sopravvivono anche alla distruzione universale.
3a. Il corpo di Śiva è bianco perché è cosparso di cenere, un elemento molto importante nel culto śivaita. Per esempio, è fatto di cenere il segno sacro (tilaka) consistente in tre linee orizzontali che i devoti śivaiti tracciano sulla loro fronte. Sul piano simbolico, la cenere è un potente richiamo all’insostanzialità di tutte le cose, all’impermanenza universale, e, più nel concreto, all’ineludibilità della morte. A un secondo livello la cenere simboleggia anche il distacco ascetico che deriva dal guardare in faccia la morte, dal meditare su di essa per arrivare poi a sconfiggerla, morendo a sé stessi. Nell’ascesi śivaita la contemplazione della morte può avere un’applicazione anche molto concreta, come nel caso degli yogin che meditano la notte seduti sulle ceneri spente di una pira funebre.
3b. Kāmadeva, che qui è chiamato con uno dei suoi appellativi, il “Nato dalla mente” (manobhūta), ha un aspetto bellissimo e risplendente, essendo il dio della passione e dell’amore erotico.
3c. La chioma di Śiva accolse la dea Gaṅgā quando scese sulla terra: solo la folta e intricata capigliatura di Śiva, nella quale ella vagò per migliaia di anni, fu in grado di frenare il terribile impeto della sua travolgente cascata che la terra non sarebbe stata in grado di reggere. La Gaṅgā sul capo di Śiva è figura dell’incontenibile energia della sua śakti, che si rivela anche come grazia, purificatrice e liberatrice, con riferimento alla funzione purificatrice e salvifica delle acque del Gange.
4b. Śiva ha la gola blu perché questo è il colore dell’impronta lasciatavi dal veleno sorto dal mitico frullamento, avvenuto all’inizio dei tempi, dell’oceano di latte simboleggiante la sostanza primordiale (prakṛti). Deva e asura lo frullarono nell’intento di ricavarne il nettare dell’immortalità, l’amṛta, ma in un primo tempo ne uscì il veleno Halāhala o Kālakūṭa, che fu bevuto da Śiva per salvarli. Nīlakaṇṭha “Dalla gola blu”, è anche uno dei nomi di Śiva.
4c. Śaṅkara, “il Benefico”, è uno dei tanti altri nomi di Śiva, come Śambhu, “Fonte di bene e di prosperità” (vv. 8b, 8cd e 9b), Rudra, “l’Urlatore” (l’appellativo vedico di Śiva che dà nome all’inno), e Hara, “il Distruttore” (v. 9a).
5c. Il dolore è detto triplice perché, secondo la celebre classificazione che si trova nel commento di Gauḍapāda alla prima delle Saṃkyakarikā, può essere adhyātmika, cioè individuale (fisico o mentale che sia), adhidaivika, cioè dovuto alle forze cosmiche o della natura, e adhibhautika, causato dalle diverse categorie di esseri viventi (bhūta). Con il triplice dolore è connessa l’invocazione Oṃ śānti śānti śāntiḥ, “Oṃ pace, pace, pace”, che spesso conclude inni e recitazioni vediche.
5d. Bhavānī, “Colei che è esistente”, è uno dei nomi della Śakti di Śiva, più avanti chiamata col nome di Umā (v. 7abc).
6a. “Grande ciclo del tempo” traduce kalpa, un ciclo temporale di enorme estensione, dato che ogni kalpa corrisponde a mille mahāyuga, ciascuno dei quali si compone delle quattro ere (yuga) di Satya, Treta, Dvāpara e Kali e ha la durata di 4 milioni e 320 mila anni. Nella grandiosa visione cosmica induista, un kalpa corrisponde a un solo giorno della vita di Brahmā, che vive 100 anni, corrispondenti al tempo di un battito di ciglia (nimeṣa) di Śiva. Si tratta, ovviamente, di un modo di esprimersi che ha un mero valore allusivo, poiché la vita di Śiva non ha durata, dato che, come Essere supremo, trascende tempo e spazio.
6. Purāri è la forma abbreviata di Tripurārī, il “Nemico delle Tre Città”. L’appellativo trae origine da uno dei più celebri miti śivaiti dalle numerose valenze simboliche: quello della distruzione di tre città (tripura) d’oro, d’argento e di bronzo, popolate di demoni che spadroneggiavano sul mondo, perseguitando uomini e dèi. Le tre città potevano essere distrutte solo trapassandole con un’unica freccia e solo Śiva riuscì a portare a compimento la straordinaria impresa.
6d. “Nemico di Kāmadeva” (manmathārī) è un appellativo di Śiva che si rifà al ciclo di storie riguardante le sue nozze con Pārvatī: mentre Śiva era immerso in profonda meditazione, Kāma disturbò la sua concentrazione cercando di colpirlo con le sue frecce fiorite affinché si innamorasse di Pārvatī, ma subito Śiva lo incenerì col fuoco emanante dal suo terzo occhio. Kāma è qui chiamato Manmatha, con riferimento alla sua azione di agitare la mente come dio dell’amore erotico e della passione.
8a. Il japa è la ripetizione di un mantra o di un nome divino; può essere vocale o puramente mentale e si può praticare con l’ausilio di un rosario con 108 grani. La pūjā è un rito di adorazione, che nella sua formula completa è assai lungo complesso, ma si può eseguire anche in modo molto semplice con un inchino, un’offerta d’incenso o di fiori, una circoambulazione della statua sacra… Affermando di non essere in grado di praticare lo yoga e di compiere adeguatamente le comuni pratiche cultuali, il devoto fa qui una professione d’umiltà per rimettersi completamente alla grazia di Śiva.
9. Il brahmano di cui qui si parla è il maestro śivaita di cui s’è detto nell’introduzione all’inno. Questo verso in appendice, funziona da phalaśruti, la tradizionale conclusione di testi sacri, inni, capitoli o sezioni di testi sacri, se fruibili anche come testi isolati, dove si enuncia solennemente il “frutto” (phala) che si ottiene attraverso il loro ascolto o la loro recitazione. La presenza della phalaśruti fa pensare che Tulsīdās per il suo Rudrāṣṭaka avesse in mente un utilizzo nel culto e nella lode, dunque anche separatamente dal contesto che lo ha prodotto, come effettivamente ancora accade ai giorni nostri.