Le pareti aggettanti e i portali monumentali d’ingresso dei templi induisti pullulano di raffigurazioni attinte dai diversi piani di esistenza: acquatico, terrestre e celeste; sono veri intarsi scolpiti nella pietra. La poesia abbonda di figure retoriche; ugualmente affollato appare il pantheon delle divinità, fino a sfiorare i trentasei milioni!
È innegabile che il primo sguardo sull’induismo sembri l’elogio dell’horror vacui! Eppure, varcata la soglia, si riscopre un andamento fortemente centripeto dalla molteplicità della forma verso un’Unità originaria. Un moto che conduce a quell’Uno, variamente definito dai Testi sacri: l’Ekam sat del Ṛgveda, il Tat o il Brahman delle Upaniṣad, il sostrato di tutto. Nello stesso passo vedico, i succitati trentasei milioni di dèi sono, invero, ricondotti all’Uno senza secondo.
Simile a una cellula pulsante, le Scritture descrivono la manifestazione come il Respiro divino, haṃsa, fiamma splendente nel cuore di ognuno. Il Sé divino che risiede negli esseri umani è il medesimo che vive in tutti gli aspetti della creazione.
In una visione decisamente non antropocentrica, l’uomo è parte di un organismo che vibra all’unisono. Il saggio vedico, immerso nelle foreste, indaga la relazione con sé stesso, con gli altri esseri e con Dio. Dalla natura, che generosamente dona senza nulla chiedere in cambio, impara il senso dell’amore disinteressato. Il sole fornisce calore e luce a tutti, un albero la sua ombra; un fiume placa la sete della tigre e della mucca allo stesso modo. L’aria sostiene la vita del regnante come quella del povero, la nuvola dà pioggia a tutti indistintamente.
L’induista riscopre Dio anche nella natura sublime, nel bagliore che precede l’alba, nel tramonto, nelle maestose acque del Gange, nell’allegra danza del pavone, nel dolce svolazzare di una farfalla. Da questa contemplazione sorge la “semplice” constatazione della corrispondenza tra micro e macrocosmo costituiti entrambi dai cinque elementi.
La Caraka saṃhitā (4.13:5), un testo di medicina ayurvedica, afferma: “Ascolta, o Agniveśa! La comprensione vera sorge per colui che vede allo stesso modo tutto l’universo all’interno di sé e sé stesso in tutto l’universo.”
Cosa renda allora l’essere umano distinto dagli altri esseri viventi?
In teoria, questi ha maggiore capacità di decidere la qualità del proprio agire, avendo coscienza della responsabilità della sua azione. Si trova nella “via di mezzo”. Può scegliere di intonare la sua vita in armonia con il “grande tessitore”, il dharma, e scalare, così, le vette del Cielo, oppure inabissarsi nel buio dell’ignoranza e dell’egoismo.
Negli animali tale autodeterminazione è minore seppur presente in quanto prevale il dharma di appartenenza ai propri simili. Tuttavia, tutto ciò che esiste, prima o poi, otterrà mukti, la piena identità con il Divino.
“I fiumi, o caro, scorrono gli orientali verso oriente, gli occidentali verso occidente. Venuti dall’oceano [celeste], essi nell’oceano tornano e diventano [una cosa sola] con l’oceano. Come là giunti non si rammentano di essere questo o quest’altro fiume. Proprio così, o caro, le creature, che sono uscite dall’Essere, non sanno di provenire dall’Essere. Qualunque cosa siano qui sulla terra – tigre, leone, lupo, cinghiale, verme, farfalla, tafano o zanzara – esse continuano la loro esistenza come Tat. Qualunque sia questa essenza sottile, tutto l’universo è costituito di essa, essa è la vera realtà, essa è l’Ātman. Essa sei tu.” (Chāndogya Upaniṣad, 6.10.1-2).
In questa prospettiva, l’uomo deve essere un sukṛta, “fautore di bene”, in accordo con il principio chiave di tutto l’induismo: la non violenza, ahiṃsā.
Con grande poesia, un inno dell’Atharvaveda condensa il valore cardine della non violenza nei riguardi della Terra e di ogni essere vivente.
“Di qualsiasi cosa io ti privi, o Terra, possa tu averne repentino rifornimento! O purificatrice, possano i miei colpi non percuoterti nei tuoi punti vitali, nel tuo cuore!”
Su questo scenario di interrelazione profonda, si innesta un immaginario ricchissimo in cui gli animali “prestano” le fattezze alle raffigurazioni delle Divinità, divenendo scrigni di un tesoro simbolico, raffinato e prezioso, decifrabile su piani di lettura plurimi, da quello più esoterico, in cui l’animale si fa vettore di messaggi archetipici trasversali a molte culture, a un piano di comprensione altamente esoterico la cui decodifica avviene per via iniziatica.
Ne è un esempio il serpente che può rappresentare i veleni del mondo, richiamando l’immaginario comune che lo associa al “male”, alla tentazione, ma può anche rappresentare il tempo o aspetti della fisiologia sottile dello yoga.
L’immediatezza che gli animali hanno nell’esprimere particolari qualità loro proprie è alla base del loro “incarico” di essere simbolo e veicolo, vāhana, delle divinità.
Ecco dunque che il topolino, veicolo di Gaṇeśa, ne rappresenta l’intelligenza viva, rapida; il leone di Durgā ne trasmette la potenza e la signoria sugli istinti; il toro di Śiva ne accentua il valore di bontà e di prolificità. Lo haṃsa, il mitico uccello veicolo di Sarasvatī, simboleggia la capacità di discernere il vero dal non vero, per la capacità, che gli viene attribuita, di bere il latte mescolato con l’acqua, lasciando da parte l’acqua.
Le numerose rappresentazioni simboliche che, attingendo al mondo animale, sono variegate espressioni di quella sacralità che l’induismo attribuisce a ogni aspetto della vita, nella visione occidentale hanno spesso dato adito a luoghi comuni a dir poco penosi. Uno dei più diffusi è quello che riduce l’induismo alla “religione della vacca sacra”. La vacca, il cui culto affonda le sue radici nella cultura eminentemente pastorale della società vedica, ha sicuramente un posto molto importante nell’induismo e nella cultura indiana in generale: vero emblema della sacralità di tutto il regno animale, la vacca simboleggia la natura intesa come Madre munifica che nutre i suoi figli col latte del suo seno.
Leggere il linguaggio iconografico induista, o di qualsiasi fede, in senso letterale significa, quasi sempre, tradirne il messaggio più autentico.
L’immaginario animale entra inoltre nel linguaggio poetico prestandosi a immagini di autentica bellezza in cui le nubi sono raffigurate come elefanti dalla cui proboscide cade la pioggia o, ancora, la danza dei pavoni in festa per l’arrivo della stagione degli amori.
Una sensibilità psicologica presente nella cultura greco-latina che sceglie gli animali come protagonisti di fiabe e favole, si ritrova in testi quali l’Hitopadeśa o il Pañcatantra, che mostrano la capacità di scandagliare l’animo umano e di rappresentarlo attraverso personaggi animali dalla psicologia definita. Grazie all’espediente dell’antropomorfismo, infatti, gli animali ritraggono i sentimenti umani come dei cristalli che rifrangono lo spettro luminoso di emozioni e stati d’animo del lettore. Ecco che, se ci si lascia trasportare dal flusso degli aforismi, si è guidati a comportarsi in modo retto nel campo delle interazioni umane.
Chissà che tali insegnamenti non riescano a rendere questa grande famiglia quale è il mondo, un luogo in cui il rispetto e la non violenza diventino la base di ogni pensiero, parola e azione.
Se, come sosteneva giustamente il Mahātmā Gandhi, “il grado di una società si giudica dal modo in cui tratta gli animali” il mondo moderno ne esce, ahimé, con un profilo pessimo in cui il profitto economico, le leggi di mercato e una crescente perdita di empatia sembrano giustificare ogni genere di atrocità perpetuata nei confronti degli animali non umani, e spesso anche umani!
Nell’induismo, gli animali non sono oggetti per l’uso, il consumo e l’abuso dell’essere umano, bensì compagni di viaggio, anime senzitienti in cerca, come tutti, di felicità, protezione, amore; sospinti da un anelito, più o meno conscio, a tornare a quella sorgente divina da cui tutti proveniamo!
